1. Introduzione.

Spesso avviene che costruzioni molto antiche vengono assimilate ad architetture più recenti senza che se ne riconosca la corretta paternità. Lo riconosceva Louis Charles François Petit Radel in un suo lavoro, pubblicato postumo nel 1841. Per 40 anni, dal 1792, egli aveva compiuto osservazioni in varie località d’Italia e Grecia rimanendo colpito da una parte dalla identità della tecnica costruttiva dell’opera poligonale e dall’altra dalla grande differenza esistente tra tale tecnica e le tecniche costruttive adottate successivamente nei due Paesi. Non a caso l’opera poligonale, come fa rilevare Giulio Magli (2009), non è rinvenibile né nella zona urbana di Roma né nelle colonie greche in Italia e non era in uso nel mondo romano al tempo di Vitruvio, l’autore dell’unica opera sull’architettura dell’antica Roma (Rovetta, 2002). Allo scopo di chiarire tale situazione Petit Radel descriveva per esempio la condizione della cinta difensiva di Fondi, che nella sua parte inferiore mostra un muro a secco in opera poligonale, mentre nella parte superiore è costituita da un opus incertum caementicium, di sicura età romana.

Più approfonditamente ed acutamente Giovanni Battista Giovenale (1900) faceva osservare che, quando i Romani creavano una nuova colonia, come ad esempio a Segni, volendo rialzare le mura costruivano in opera quadrata sopra all’opera poligonale, arrivando a portare da lontano blocchi di peperino già squadrati anziché completare il muro esistente con lo stesso stile e lo stesso tipo di pietra locale, di natura calcarea. Riportava anche il caso di Alba Fucens: per ricostruire un breve tratto di mura demolito durante un assedio, i Romani “usarono i massi caduti, ma collegandoli con malta di calce e rivestendoli con grosso strato di opera cementizia.” Si chiedeva infine “Ma se poi l’opera poligonale è romana, dove sono, di grazia, le mura degli Ernici, dei Volsci, dei Sabini, che tanto tempo hanno resistito ai Romani?”

Il tema che sto affrontando si basa quindi innanzitutto su questa evidenza: che, tra i muri in opera poligonale e le opere più recenti, di cui conosciamo con certezza la paternità, vi è un importante salto qualitativo.

Vi è poi una seconda evidenza, già sfiorata da Petit Radel: che nelle varie regioni in cui i muri in opera poligonale sono presenti si ha una stessa successione di tecniche costruttive. Quando la successione è completa, in effetti si possono distinguere sei tipi di murature, che descrivo qui di seguito, dal più semplice al più avanzato tecnicamente.

Primo tipo. Le pietre, generalmente di grandi dimensioni, cioè spesso superiori a 1 m, sono allo stato naturale e sono state semplicemente accatastate cercando di non lasciare grandi spazi vuoti, come si vede al centro di Amelia, in Figura 1.

Secondo tipo. Sono state scelte pietre che avessero almeno una superficie abbastanza piana, da esporre all’esterno, in modo da avere un paramento del muro il più possibile uniforme. Gli spazi vuoti venivano riempiti con pietre di piccole dimensioni, eventualmente spezzate per adattarsi meglio agli spazi da occupare. Nelle Figure 2 ÷ 5 sono rappresentati i casi di Norba, Roselle, Borg in Nadur (Malta) e Ollantaytambo (Perù).

Terzo tipo. Le pietre, dopo essere state selezionate, venivano ampiamente ritoccate per non lasciare ampi spazi liberi. Tra il secondo e il terzo tipo vi è un enorme salto tecnologico poiché per ottenere i nuovi risultati sono stati necessariamente impiegati, per la prima volta, strumenti di bronzo. Muri di questo tipo sono, ad esempio, a Machu Picchu, in Perù, (Figure 6 e 7), a Cori (Figura 8), Ferentino (Figura 9) e Norba (Figura 10).

Quarto tipo. La forma delle pietre è stata ampiamente ritoccata: è stata resa piana non solo la faccia a vista ma anche quelle a contatto con le pietre adiacenti. Non sono stati lasciati spazi vuoti, e la faccia esterna di ogni elemento del muro ha la forma di un poligono irregolare. È un primo tipo di opera poligonale.

Nelle Figure 11 ÷ 13 ne vediamo tre esempi ad Amelia, Orbetello e Ferentino, mentre la Figura 14, che si riferisce alla fortezza di Ollantaytambo (Perù), mostra una variante, ricca di lati curvi, come è avvenuto in Grecia con la cosiddetta “opera lesbia”.

Quinto tipo. È una derivazione dal tipo precedente, con una tendenza sempre più marcata a disporre le pietre con allineamenti orizzontali e ridurre a quattro i lati dei poligoni, fino ad avere perfetti rettangoli; lo possiamo osservare nelle Figure 15 ÷ 21, relative a Pyrgi, Alatri, Spoleto, Machu Picchu e Cusco (Perù), Nikko e Tokyo (Giappone), Vicovaro. È un tipo più tardo di opera poligonale. Nella figura 21 si può osservare la presenza di facce con forma di trapezio, le quali nei corsi della parete si intercalano sporadicamente a facce di forma rettangolare.

Sesto tipo. I contorni delle pietre sono rettangolari, e si distinguono da quelli che appartengono alle forme più evolute del tipo precedente per i bordi più netti; ciò è dovuto all’impiego di una sega e non più di un martello e uno scalpello. È presente, per esempio, all’acropoli di Ferentino (Figura 22) fra un quarto tipo e la base delle finestre con arco, al Templo do Sol di Machu Picchu e ai giardini imperiali di Tokyo (Figure 23 e 24).

Vi è infine una terza evidenza, più sottile, che ci può guidare validamente a chiarire a chi potremmo attribuire i muri più antichi: oltre alla identità delle soluzioni tecniche, vi è una identica, grande precisione con cui le opere del quarto e del quinto tipo sono state realizzate, anche in aree molto lontane tra loro. Infatti il contatto tra le facce degli elementi di un’opera poligonale tende ad essere sempre perfetto. Questo risultato è possibile solo se fattori soggettivi sono intervenuti il meno possibile; tali fattori avrebbero avuto un grande peso se forme e dimensioni delle pietre impiegate fossero state determinate, come si è generalmente supposto, tramite riporti delle lunghezze dei lati e delle aperture degli angoli. Il minimo di soggettività si ha invece quando le lunghezze o le aperture vengono determinate tramite misura.

Era da verificare dunque se le lunghezze dei lati costituiscono una successione continua di valori, a causa del riporto di lunghezze casuali, o discontinua, nel caso venisse impiegato un sistema di misura: in tale caso le lunghezze dei lati non possono che risultare multiple di una determinata unità o di una sua frazione. Occorre tenere presente che non tutti i lati si prestano alla verifica: deve essere usata l’accortezza di scegliere pietre che dovevano occupare uno spazio obbligato, come avviene se la forma è quella di un trapezio rovesciato isoscele o scaleno; inoltre è necessario che le facce laterali siano ortogonali rispetto a un piano verticale passante per una delle basi, condizione che spesso non troviamo rispettata.

Misure della lunghezza di basi minori di tali trapezi sono state compiute dapprima in Italia e hanno mostrato che effettivamente era stata impiegata una unità di misura di 1,536 cm, che, come sarà giustificato più avanti, è stata chiamata “dito pelasgico” (Mortari, 2012a); essa ha la particolarità di essere nettamente diversa dalle unità di misura note dell’antichità.

Figura 25

Altre misure sono state poi effettuate dapprima in Grecia (Mortari, 2012b), dando analoghi risultati, e successivamente in Perù e Bolivia (Mortari, 2013a, 2013b). Dei siti sudamericani sono riportate nella ascisse d della Figura 25 le due prime cifre decimali dei valori ottenuti, una volta che sono stati tradotti in dita pelasgiche; in ordinate è la loro frequenza N. I dati provengono precisamente da Ollantaytambo (1), Sachsayuaman (2), Cusco (3), MachuPicchu (4), Sillustani (5) e Tiwanaku (6). Il diagramma dimostra che le misure effettuate riflettono l’unità pelasgica e sue frazioni (1/2 e 1/4), con una predilezione per i valori interi.

Le misure suggeriscono dunque che vi è stata un’unica regia nella costruzione dei muri in opera poligonale. Dato che l’unità di misura riscontrata è nettamente diversa dalle unità di misura adottate dalle varie civiltà del mondo antico, si rivela errata la tendenza ad attribuire la costruzione di tali muri a tempi relativamente recenti, come quando si sostiene che le opere in questione siano attribuibili ai Romani in Italia e agli architetti del periodo classico in Grecia. Di chi era dunque quella regia?

Poiché non sono state trovate mura di difesa del quarto e del quinto tipo costruite utilizzando altre unità di misura, possiamo affermare che la popolazione che stiamo cercando di identificare era l’unica a costruire mura del genere; dovrebbe essere stata l’unica anche ad erigere difese dei primi tre tipi considerando che, quando questi sono presenti, sono strettamente associati al quarto e al quinto.

Possiamo escludere che chi stiamo cercando fossero i Micenei, anche se, come vedremo, a Micene sono rappresentate opere murarie del secondo, quarto, quinto e sesto tipo. I Micenei sono vissuti nella tarda età del bronzo e non possono assolutamente avere elevato muri del secondo tipo, che sono stati costruiti senza l’uso di strumenti metallici. Inoltre non è pensabile che i Micenei abbiano costruito gli stessi tipi di muri in Sudamerica e, come viene descritto altrove (Mortari, 2014), in Giappone: i Micenei hanno una storia, ben nota, relativamente recente e non risulta che essi potessero compiere traversate oceaniche.

Analogo discorso vale per i Minoici. Alcuni autori tuttavia hanno espresso una convinzione contraria (Pincherle, 1990). Vedremo meglio nel seguito le ragioni per escludere tale ipotesi.

Dobbiamo quindi andare ancora più indietro nel tempo e dare credito a quanto riferisce Tucidide, per il quale le più antiche mura dell’acropoli di Atene erano state costruite dai Pelasgi. I Pelasgi, come ha spiegato Erodoto, costituivano la popolazione che abitava la Grecia prima dell’arrivo da nord degli invasori di lingua ellenica, tanto che allora la Grecia veniva chiamata “Pelasgia”. Ad Atene si trovano non solo parti di mura difensive del secondo tipo nella parte alta dell’acropoli, ma anche due eleganti muri di sostegno: il primo, del quarto tipo, corre parallelamente al peripatos che congiunge il teatro di Dioniso e l’odeon di Erode Attico ed è stato già descritto (Mortari, 2012b); il secondo, del quinto tipo, circonda il podio della Pnice, poco a sud dell’agorà. Cinque misure di lati di pietre lungo il peripatos e tre misure alla Pnice hanno fornito valori che sono in accordo con quelli ottenuti in Italia, ovvero sono multipli di 1,536 cm o sue frazioni. La compresenza di muri del secondo, quarto e quinto tipo ci consente di attribuire tutte queste opere ai Pelasgi seguendo l’affermazione di Tucidide.

Il nome dei Pelasgi non era limitato al solo territorio greco: infatti, ad esempio, Ellanico di Lesbo considerava tali anche gli Etruschi, o Tirreni, che secondo Erodoto provenivano dalla Lidia, e Strabone asseriva che l’etrusca Cere era di origine pelasgica. Va tenuto presente che Ellanico e Strabone erano di cultura greca e perciò impiegavano termini propri del loro mondo, ma occorre anche riconoscere che il nome dei Pelasgi veniva ad indicare una derivazione comune di diversi popoli, che abitavano, oltre alla Grecia, anche la penisola italiana e quella anatolica. L’origine anatolica del popolo presso il quale si è sviluppata la civiltà etrusca è stata recentemente dimostrata dalle ricerche sul DNA mitocondriale (Pellecchia et al., 2007; Achilliet al., 2007; Ghirotto et al., 2013). Inoltre, poiché la lingua etrusca è molto simile all’albanese (Vlora-Falaschi, 1989), possiamo aggiungere l’Albania alle regioni abitate dalla popolazione in questione; d’altra parte, anche qui troviamo delle mura megalitiche: a Butrinto (Curuni, 2012) e Fenice. Mura megalitiche sono segnalate in Siria a Ugarit, nell’arcipelago maltese, in Spagna a Tarragona, in Israele a Gerusalemme, in Turchia a Hattusa e varie altre località, in Marocco a Volubilis e a Lixus, in Tunisia a Dougga.

Pertanto i Pelasgi, intesi nel senso lato che ho suggerito, in forma di sineddoche, hanno popolato un’ampia area intorno al Mediterraneo e possono essere considerati i costruttori delle mura difensive a secco dei diversi tipi descritti. È possibile che il loro nome fosse diverso in altri Paesi diversi dalla Grecia e dall’Italia. Come gli Etruschi, che si denominavano Tirreni o Tirseni e compaiono con un loro proprio nome, così è possibile che molti altri popoli con la stessa origine fossero conosciuti fin dall’antichità con nomi diversi. Potrebbe essere il caso, ad esempio, degli Hatti, che vivevano nell’Anatolia centrale prima ancora dell’arrivo degli Ittiti, anch’essi, come gli Achei, di lingua indoeuropea. Ritengo dunque che il nome dei Pelasgi possa accomunare, per comodità, molti popoli che parlavano una stessa lingua e vivevano nell’area mediterranea prima che i loro territori venissero conquistati da popolazioni indoeuropee.

2-Osservazioni.

Il presente lavoro si riferisce prevalentemente all’area greca, e in particolare a Beozia, Argolide e Creta. Mancheranno foto e misure, poiché non ho ancora dalle autorità competenti greche un’autorizzazione a pubblicarle: infatti nei siti archeologici della Grecia, per misurare le dimensioni di una pietra o anche solo per fotografare un metro appoggiato contro un muro antico occorre chiedere il rilascio di un permesso. Per l’area italiana riporterò alcuni dati che riguardano Palestrina e Cosa.

2a - CRETA

A Creta i luoghi che ho visitato sono Knossos, Festos, Aghia Triada, Gournià, Kato Zakros, Mallia, Palaikastro, Itanòs. Inizio da Gournià poiché qui si trovano i muri più antichi, del primo tipo, che sono stati impiegati abbondantemente per la costruzione di ambienti di piccole dimensioni, diversamente da ciò che nelle aree archeologiche è più frequente trovare, cioè muri del primo tipo con funzione di difesa o di contenimento del terreno. Muri del secondo tipo compaiono qui soprattutto ai lati delle strette strade e nella parte sommitale, spianata, della collina, dove si trovano intorno allo spiazzo della corte e formano elementi principali dell’architettura, come scale, anche se di pochi e bassi gradini. Nel contorno della stessa corte abbondano pietre squadrate del sesto tipo.

A Kato Zakros prevalgono muri del primo tipo, ma a differenza di Gournià gli edifici sono più grandi e lo sono anche gli spazi tra di essi. Vi sono due resti di scale, a dimostrazione che vi erano anche secondi piani. Siamo in presenza dunque di palazzi, costruiti però quando sono state adottate successive tecniche costruttive. Nella parte più bassa compaiono anche, come aggiunta periferica, edifici con murature del secondo tipo. Si passa poi a un sesto tipo, soprattutto nella parte centrale, intorno alla corte.

Mallia. I muri più antichi qui sono del secondo tipo, con pietre di dimensioni piuttosto grandi. Vi è un settore dove si riconoscono bene muri del quinto tipo ottenuti da una calcarenite facilmente lavorabile, chiamata “poros”, mentre tutt’intorno all’ampia corte compaiono resti di muri del sesto tipo, spesso come base di muri legati con malta. Spiccano due tribune su un lato maggiore della corte.

Palaikastro. La massima parte degli edifici sono stati costruiti con muri del secondo tipo. Sono ben presenti muri del sesto tipo e poi muri legati con malta, in cui sono state impiegate frequentemente pietre riciclate.

Aghia Triada. La lunga scala da cui si scende dall’ingresso del sito, con oltre venti gradini, ha ai fianchi muri del sesto tipo. Sono stati conservati diversi muri del sesto tipo, che sembrano strettamente connessi ad una rielaborazione del sito ovvero ad una ristrutturazione urbanistica, con scale, piazze, edifici, pavimentazioni, canalizzazioni dell’acqua. Spiccano sette pilastri a base quadrata nell’agorà. In più punti il quinto tipo sta sopra ad un secondo tipo, che è piuttosto frequente nell’area.Le pietre dei muri più recenti sono tenute insieme da un legante, probabilmente di gesso, e sono disposte seguendo allineamenti orizzontali; sono conservati fino a due o tre metri di altezza contro un metro circa di quelli del sesto tipo.

Festos. Diversamente da Aghia Triada, le scalinate qui sono molto ampie, ma sono ancora affiancate da muri del sesto tipo, che è ben rappresentato e relativamente ben conservato intorno alla corte e un po’ ovunque, formando pilastri e gli stipiti delle porte. Abbondano anche i muri legati con malta, che sono generalmente sovrapposti a quelli a secco. In pochi punti, muri del secondo tipo si trovano direttamente sotto al sesto.

Knossos. Muri del sesto tipo sono più abbondanti e meglio conservati rispetto agli altri siti. Essi hanno dato una impronta nuova, e definitiva, alla struttura urbanistica del sito, dopo che una prima sistemazione era avvenuta con muri del secondo tipo: questi, con funzione soprattutto di contenimento e con uno spessore di circa due metri, erano stati impiegati per delimitare l’area principale sui lati a est, nord e ovest. Una sistemazione intermedia nel tempo si è avuta con altri muri di contenimento, questa volta del quinto tipo; essi hanno la particolarità di presentarsi con due tecniche costruttive ben distinte, che indicano l’intervento di due squadre di lavoro diverse. Una delle due tecniche si contraddistingue perché i blocchi hanno la forma di un parallelepipedo nella parte della faccia a vista mentre sono a forma di cuneo nella parte interna; essa si trova anche a Palaikastro. La seconda tecnica ricorda l’opera lesbia in quanto i lati sia verticali che orizzontali possono presentarsi ondulati. Si mostra con evidenza sia a nord, presso il “bastione occidentale” che a sud, presso il negozio degli orci giganti.

Il bastione occidentale, che il restauro di Evans ha reso uno dei punti più fotografati per le sue colonne rosse e un affresco dai colori vivaci, è costituito dalla sovrapposizione di due piani costruiti con due stili molto diversi. Il muro, a secco, del piano inferiore è fatto di blocchi perfettamente squadrati del sesto tipo, mentre il muro del piano superiore è formato da pietre arrotondate e di modeste dimensioni, unite da un legante.

Itanòs. L’opera più rilevante è una sostruzione costituita da un terrapieno delimitato da un muro del quinto tipo; la misura di due pietre indica la sua origine pelasgica. Più a est, la soglia dell’ingresso di sinistra della “basilica”, è formata da un blocco di un bel calcare grigio, perfettamente squadrato, le cui tre dimensioni indicano di essere state stabilite, con precisione, utilizzando l’unità di misura del dito pelasgico. Più in alto, a strapiombo sul mare, la cima della collina è stata modellata come un’intiwatana; purtroppo molto recentemente è stata ritoccata alla base.

2b - ARGOLIDE

La cinta muraria di Micene è quasi interamente del secondo tipo, con una scelta accurata delle pietre, fatta in modo da minimizzare il ricorso alle inzeppature. A metà del lato sud-occidentale vi è un breve tratto di un quarto tipo mediamente avanzato, mentre nei pressi dell’ingresso principale vi è un tratto, più esteso, in cui è presente sia il quarto tipo che il quinto tipo, questo di una fase molto avanzata. La porta secondaria che si apre a nord è costruita con due piedritti e un doppio architrave e può essere assegnata al quinto tipo.

All’interno della cittadella i vari muri di terrazzamento sono del secondo tipo, con zeppe più frequenti e più grandi rispetto a quelle delle mura esterne.

Le pietre dei muri delle parti abitate, compreso il megaron, sono più piccole e unite da un legante, forse di calce. Vi sono alcuni elementi, come nelle soglie, che derivano da una lavorazione del quinto tipo; scarsi altri elementi del quinto tipo sono stati inglobati nei muri legati con malta, formati in genere con pietre prese da precedenti costruzioni.

Nel cosiddetto Tesoro di Atreo il dromos è rivestito da due muri del quinto tipo, mentre la tholos è interamente del sesto tipo; gli spigoli degli elementi sono visibilmente arrotondati nel primo caso, molto netti nel secondo. Ho misurato l’altezza di un blocco appartenente al terzo filare della tholos; il valore risultante, tradotto in dita pelasgiche, è di xx,02 e indica con grande probabilità un’origine pelasgica.

Tirinto. Le mura difensive appartengono al secondo tipo. Sulla spianata che comprende il megaron e la sua grande corte troviamo bassi resti di muri del secondo tipo, pietre segate del sesto tipo e muri di pietre tenute insieme da un legante. Il cortile e il megaron sembrano essere stati eseguiti fin dall’inizio, quando ancora vi era solo il secondo tipo, anche se sono poi state aggiunte parti determinanti, come basi di pilastri, del sesto tipo.

Un kilometro a sud della città fortificata si trova un tomba a tholos di modeste dimensioni ma molto interessante perché sia il dromos che la tholos sono costruiti con muratura del secondo tipo.Ancora al secondo tipo è attribuibile il ponte di Kazarma, o di Arkadiko, detto anche “ponte miceneo”, che si trova a 15,9 km da Nauplia presso l’attuale strada diretta ad Epidauro. Viene attribuito indebitamente all’età del bronzo.

2c – BEOZIA.

Tra tutti i muri di Delfi il più conosciuto è sicuramente quello in opera lesbia che circonda il terrazzo su cui si ergeva, con la sua alta fondazione, la struttura templare dedicata ad Apollo. Esso non ha funzione di sostegno del terreno retrostante, ma di semplice rivestimento di un muro più rozzo che propriamente è parte della sostruzione. L’opera lesbia è stata impiegata anche per due muri molto modesti e per la patte più antica del muro perimetrale del santuario; possiamo considerarla con buona probabilità una variante del muro del quarto tipo praticata in un momento imprecisato della lunga permanenza di questa tecnica.Vi sono poi almeno quattro muri di una fase precoce del quinto tipo e tre di una fase medio-tarda dello stesso tipo. Su uno dei primi muri ho appena fatto in tempo ad effettuare una misura su un blocco, quando sono stato ripreso dal personale di controllo, che mi ha invitato a chiedere la relativa autorizzazione. La misura, tradotta in unità pelasgiche di 1,536 cm, risultava di xx,76 dp, un valore in linea con quanto trovato sulle mura pelasgiche esaminate finora. Per avere la certezza servirebbero altri dati.

Tra gli ultimi tre muri segnalati merita attenzione un muro alto un paio di metri che fa parte della sostruzione dello stadio. Esso inizia in corrispondenza della linea di partenza, ma si interrompe una ventina di metri prima della linea di arrivo.

2d – LAZIO.

In appendice alle osservazioni nell’area greca ve ne sono alcune relative all’Italia.Per l’affinità con il sito di Delfi è stata scelta Palestrina, dove, nel II secolo a.C., è stato edificato un santuario, dedicato alla dea Fortuna Primigenia. Ciò che non è stato forse mai detto è che esso deve essere sorto sulle rovine di un precedente luogo di culto. Due lunghi muri di contenimento in opera poligonale sottostanno ad altrettante terrazze che facevano parte della sistemazione originaria del sito (Figura 26). Sono state prese cinque misure su uno di questi muri. Le immagini relative sono, da sinistra a destra, nelle Figure 27 ÷ 31. Le basi inferiori dei rispettivi poligoni sono di 91,8 26,1 92,2 84,1 e 97,9 cm, corrispondenti a 59,77 16,99 60,03 54,75 e 63,74 dp. Questi valori suggeriscono l’origine pelasgica del muro.

Il secondo sito del Lazio preso in esame è Ferentino. Mi soffermo dapprima ad esaminare alcuni tratti delle mura perimetrali della città. Presso la porta Sant’Agata si può riconoscere un terzo tipo (Figura 32) per via di contatti non naturali tra varie pietre, che lo fanno distinguere dal secondo tipo. Poco a destra della porta Sanguinaria (Figura 33) i blocchi sono ancora del terzo tipo ma vistosamente più elaborati, senza però arrivare ad avere contatti così precisi come immediatamente vicino alla stessa porta (Figura 34), dove si trova un classico poligonale del quarto tipo.

Ci portiamo ora nella zona dell’acropoli e precisamente sotto il vistoso avancorpo della base del palazzo vescovile: la sua parete rivolta a sud-ovest (Figura 35) ostenta nella parte inferiore un muro, formato da grandi pietre, che possiamo classificare come quinto tipo; esso continua in alto con altre caratteristiche, essendo le pietre di minori dimensioni e tagliate a squadro. Osservando più attentamente, vediamo che il paramento del quinto tipo è stato ben spianato dal quinto corso in su a contare dal basso; i primi quattro corsi sono stati lasciati con una faccia piuttosto grezza, e questo si spiega col fatto che in origine erano al disotto della superficie del terreno e facevano quindi parte della fondazione, interrata, dell’opera. Per quanto riguarda il muro di pietre squadrate, ci dobbiamo soffermare su una iscrizione in latino che è stata incisa negli due corsi immediatamente sottostanti le sei piccole finestre con arco, occupando tutto l’ultimo corso e la parte centrale del penultimo, come si può vedere bene nella fotografia di pag. 210 di Latium di Daniele Baldassarre (2011). La stessa iscrizione è ripetuta sulla facciata del palazzo rivolta a sud-est. Per le diverse interpretazioni che ne sono state date rimando a Giulio Magli (2009). Prima di dare una mia versione, devo dire che la sola cosa su cui non si può dissentire è che la parte di muro che sovrasta l’iscrizione è romana, non tanto per l’iscrizione quanto per la presenza delle finestre con archi e, in aggiunta, per l’uso di malta, che al contrario nei corsi sottostanti alle finestre sembra mancare. A sottolineare la discontinuità, il primo corso sopra l’iscrizione è leggermente sporgente e forma perciò una debole cornice. Lungo la rampa che fiancheggia il lato nord-ovest dell’avancorpo i corsi squadrati inferiori sono accessibili, e se ne può misurare l’altezza (Figura 36). Il primo corso è di altezza variabile e perciò è fuori gioco; le altezze del secondo e del terzo corso sono uniformi e sono risultate rispettivamente di 42,2 e 33,8 cm, che, tradotte in dita pelasgiche, sono di 27,47 e 22,01 dp. Se traduciamo gli stessi dati in dita romane (che corrispondono a 1,85 cm), si hanno i valori di 22,81 e 18,27. Anche se si tratta solo di due dati, essi parlano in favore di una paternità pelasgica del muro in questione, che non abbiamo difficoltà ora a riferire al sesto tipo delle mura megalitiche. La certezza al riguardo ce la fornisce il contenuto dell’iscrizione, che secondo la mia interpretazione suona così: “I censori A. Irzio e M. Lollio si sono presi cura di ciò che occorreva fare per le fondazioni e per il muro e hanno effettuato un controllo anche sotto la superficie del terreno. La fondazione si eleva in altezza per 33 piedi. Il materiale utilizzato sotto la superficie è lo stesso di quello che si trova al disopra di essa.”

Continuando la mia interpretazione, i due funzionari romani non solo hanno seguito la costruzione del muro ma hanno anche verificato l’efficienza della fondazione, tenendo pertanto distinte le due parti. Della fondazione essi hanno dato una misura precisa, corrispondente a 33 x 0,2965 = 9,8 m, che dobbiamo ritenere valida (e quindi costante) sui due lati di sud-ovest e di sud-est su cui l’iscrizione è stata incisa. Tale misura non può comprendere la parte di fondazione sotto terra in quanto che è stato dimostrato da sondaggi relativamente recenti che essa era di profondità variabile tra un massimo di 7,6 e un minimo di 0,6 m (v. Magli, 2009). Confrontando la figura 35 con la figura 36 (questa ritrae un doppio metro appoggiato al muro di sud-ovest), possiamo valutare l’altezza del muro – in parte appartenente al quinto tipo e in parte al sesto tipo – che si estende dalla risega che in basso segnava la posizione della superficie del terreno fino alla base della cornice delle finestre con arco: essa è di circa 10 m. Questa dunque è la fondazione di cui parlano i due censori, essendo ciò su cui essi hanno fatto erigere il muro sovrastante, e la sua età è certamente preromana in considerazione della sua condizione a secco e delle altezze dei suoi corsi che non sono state determinate sulla base delle unità di misura in vigore a Roma. L’uso di una unità di misura pelasgica ci deve indurre a ritenere che la parete sottostante la cornice abbia interamente un’origine pelasgica.

2e – TOSCANA.

L’antica città di Cosa, presso Ansedonia, è circondata da mura lunghe 1,5 km e munite di 18 torri sui lati rivolti al mare; sono state elevate a secco e possono essere riferite al quinto tipo (Figura 37) per i frequenti allineamenti orizzontali. Con la stessa tecnica delle mura esterne troviamo parte delle pareti di una cisterna (Figura 38) e, sull’arce, il muro di sostegno appartenente ad una sostruzione (Figura 39) a pianta rettangolare, allungata in direzione N 75° E.

La Figura 40, ripresa da un quadro esplicativo in sito, la rappresenta con una espansione di una estremità del lato maggiore rivolto a nord: l’espansione in realtà non c’è, come si nota nella Figura 41, che ritrae l’estremità in questione da lontano.

Sulla sostruzione troviamo i resti di un tempio in opera cementizia (Figura 42), certamente rivestita in origine da un paramento, andato perduto, in pietra o in marmo; esso era dedicato alla triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva. La figura precedente e la Figura 43, che ritraggono rispettivamente l’angolo più orientale e il lato minore più occidentale, mostrano che intorno a questa struttura ci sono i resti di un altro tempio, ben distinguibili perché, tra l’altro, costituiti da blocchi segati di “panchina”, una calcarenite giallastra contenente conchiglie fossili di origine marina. I blocchi non sono tenuti insieme da malta.

L’archeologia ufficiale suggerisce che il tempio più antico potesse essere dedicato a Giove, facendolo risalire ai tempi della fondazione della città, quando, nel 273 a.C., i Romani vi stabilirono una colonia, mentre il più recente Capitolium sarebbe stato costruito circa un secolo dopo. Se però ci mettiamo a misurare l’altezza delle pietre di panchina, ne traiamo dati che ci permettono di dare al primo tempio una diversa attribuzione di età. Di queste pietre sono rimasti solo quattro corsi, che sono disposti sopra alla base livellata della sostruzione: il secondo corso ha una modanatura (Figure 44 e 45) che obbliga i corsi superiori ad essere arretrati rispetto al primo di un valore variabile tra 30,7 cm (Figura 46) e 35 cm circa. Anche il primo corso si trova ad essere arretrato, di 9 cm, rispetto alla parete della sostruzione. L’altezza del secondo corso è risultata di 46,1 cm nei tre casi in cui è stata misurata; il valore corrisponde a 30,01 dp. Il primo corso invece non ha un’altezza di valore costante: essa è di 38 ÷ 39 cm nel lato più occidentale (la media, di 38,5 cm, è di circa 25 dp) mentre sul lato più meridionale cresce da sinistra a destra fino a 44,5 cm, probabilmente per conseguire una livellazione migliore di quella della sottostante sostruzione. Il terzo corso è di 46,1 cm come il secondo, e il quarto di 49,5 cm, pari a 32,22 dp.

Anche la pianta rettangolare della sostruzione ha qualcosa di particolare interesse. Dei lati maggiori, quello rivolto a sud è il solo facilmente misurabile; esso è di 46,34 m, pari a 3017 dp. I due lati minori misurano quasi esattamente la metà del valore precedente: ad ovest la lunghezza è di 23,53 m, pari a 1532 dp, mentre il lato opposto è di 23,15 cm, pari a 1507 dp. Sembra possibile che nelle intenzioni di chi ha progettato la sostruzione le lunghezze dovessero essere prossime a 1500 e 3000 dp.

Un valore ancor più significativo è quello della larghezza della porta principale delle mura, rivolta a nord-ovest (Figura 47). Il valore determinato alla base (per non risentire dell’influenza degli spostamenti subiti nel tempo dai blocchi superiori) è di 353,3 cm, pari a 2300,13 dp.

Infine ci sono le misure effettuate sui lati inferiori di sei blocchi appartenenti al muro di cinta nella sua porzione ad est della suddetta porta. Tali misure riguardano le pietre delle Figure 48 ÷ 59, che riportano gli inquadramenti da lontano e da vicino dei sei casi; esse sono rispettivamente di 69,15 72,95 141,7 87,55 86,0 e 52,2 cm, corrispondenti a 45,02 47,49 92,25 57,00 55,99 e 33,98 dp.

3 - Considerazioni

Le osservazioni compiute a Creta hanno messo in evidenza che i siti palaziali sono stati strutturati in tre tempi distinti: la prima volta con muri del secondo tipo, la seconda volta con muri del quinto e sesto tipo e la terza volta con muri con legante. Ma l’impianto urbanistico è avvenuto soltanto le prime due volte; la terza volta si è trattato soprattutto di sopraelevazioni e di completamento di ciò che sembra fosse rimasto incompleto nella volta precedente: lo si nota ad esempio, a Festo, lungo il corridoio tra l’ampia scalinata e la grande corte, dove gli stipiti delle porte sono di pietre ben tagliate del quinto tipo ma poi i muri che si appoggiano agli stipiti sono fatti di piccole pietre irregolari legate da malta.

Il primo impianto urbanistico dei luoghi palaziali, avvenuto durante la vita del secondo tipo di muri, lo si vede nei resti di palazzi di Kato Zakro, come pure nelle ampie corti con scalinate create a Gournià, Tirinto, molto probabilmente anche a Knosso e Kato Zakro, forse a Micene, Festo e Aghia Triada.

Il secondo momento di ristrutturazione delle aree palaziali, allorché vengono eretti muri del quinto e sesto tipo, è ben osservabile a Knosso, Festo, Aghia Triada, Mallia, Kato Zakro e Gournià.

Il terzo ed ultimo periodo di edificazione è caratterizzato dall’impiego di pietre che risultano in alcuni casi grezze (sia ciottoli arrotondati raccolti negli alvei dei corsi d’acqua che pietre di cava), sia sgrossate. Ribadisco l’osservazione, importante, che tale periodo non corrisponde a una ristrutturazione del sito, ma semplicemente a un completamento delle strutture preesistenti.

Degno di rilievo è il fatto che la tecnica del secondo tipo è stata protagonista in alcune importanti innovazioni architettoniche, come è dimostrato dalla tomba a tholos presso Tirinto e dal ponte di Kazarma. Per inciso, questo ponte viene assegnato all’età del bronzo, quando al contrario è evidente che il bronzo non è stato affatto impiegato per correggere più o meno intensamente la forma degli elementi lapidei, che è rimasta essenzialmente quella naturale; per un’opera del genere, che ha sfidato i millenni, una modellazione delle pietre sarebbe stata opportuna se fossero stati a disposizione strumenti di bronzo.

Figure 60

È sorprendente quanto poco sia rappresentata la tecnica poligonale del quarto tipo: la si trova in minima parte a Micene e poi più abbondante a Delfi. È più frequente invece il quinto tipo, presente a Knosso, Mallia e soprattutto Micene, dove risalta intorno alla Porta dei Leoni (Figura 60) e nel dromos del Tesoro di Atreo.

Tutte queste strutture vengono considerate micenee o minoiche, ma in realtà, quando Minoici e Micenei costruirono le loro dimore sui resti di quelle precedenti, lo fecero con murature più povere o, almeno, meno avanzate tecnicamente, grazie all’artificio di legare gli elementi murari con una malta.

Come già fatto notare per il ponte di Kazarma, i Micenei, che sono vissuti nella tarda età del bronzo, non hanno edificato le mura del secondo tipo. Lo stesso dicasi per i Minoici, la cui civiltà si è sviluppata interamente nella prima e nella media età del bronzo.

Per quanto riguarda l’Italia, Cosa presenta una situazione molto eloquente di due momenti costruttivi: i muri più antichi sono messi insieme a secco mentre quelli più recenti sono legati con malta; per questi l’età è evidentemente romana, mentre per i primi gli elementi geometrici inducono ad attribuire alla popolazione pelasgica la loro elevazione.

La nuova tecnica di segare le pietre in perfetti parallelepipedi ha consentito, nei siti di Creta, di affiancare, forse per la prima volta, pilastri a colonne; in alcuni casi i primi sostituiscono completamente le seconde grazie alla loro maggiore durata se le colonne erano fatte di legno. Per quanto riguarda le colonne, esse hanno cominciato a comparire almeno da quando venivano costruiti muri della tarda fase del quinto tipo, come si vede a Micene sopra alla Porta dei Leoni.

Un’ultima considerazione riguarda la tecnica di legare le pietre con una malta a base generalmente di calce o gesso, ma a volte anche di terreno argilloso. Tra i primi casi dell’impiego di un legante vi sono opere della Mesopotamia che risalgono alla cultura di Uruk (Forest, 1991), sviluppatasi all’incirca tra il 3800 e il 3000 a.C.. Poiché Cicladici, Minoici, Micenei ed Egizi conoscevano questa tecnica ed hanno sviluppato altrettante civiltà che sono nate contemporaneamente all’uso del bronzo, è possibile che essa si sia diffusa insieme a questa lega. L’adozione di un legante si è accompagnata generalmente all’uso di intonacare i muri.

4 - Conclusioni

Nei siti archeologici esaminati si presentano opere murarie con due diverse caratteristiche essenziali e due distinte posizioni stratigrafiche. Al disotto troviamo muri a secco, al disopra muri con malta. I muri a secco possono essere di sei tipi, che si riconoscono perché lo stile di ciascuno è ben determinato; spicca tra di essi il quarto tipo, in prima opera poligonale, che dimostra di essere stato elevato misurando lati ed angoli delle facce a vista. L’unità di misura usata per determinare la lunghezza di lati è sempre la stessa in varie aree del pianeta anche molto lontane tra di loro, e ciò dimostra che un’unica popolazione l’aveva adottata. Dando credito alla voce di Tucidide, secondo cui le mura più antiche dell’area dell’acropoli di Atene sono state edificate dai Pelasgi, un popolo presente in Grecia prima dell’arrivo delle prime popolazioni di lingua indoeuropea, possiamo dire che i Pelasgi erano la popolazione che costruiva mura in opera poligonale, anche se localmente essi possono avere assunto nomi diversi, come è il caso degli Etruschi.

Le opere murarie dotate di un legante sono invece riferibili a varie popolazioni, che hanno in comune un ostentato uso del bronzo; esse hanno occupato territori che in precedenza erano abitati da coloro che vengono chiamati Pelasgi e ad esse purtroppo vengono comunemente attribuiti i resti di molte opere che preesistevano all’occupazione: emblematico è il caso della Porta dei Leoni di Micene.

5 - Lavori citati

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