1 – INTRODUZIONE

Negli otto millenni che hanno preceduto l’invasione punica in Sardegna è stata riconosciuta una successione di dieci distinte culture, entro la quale due grandi discontinuità consentono di avvertire importanti cambiamenti per la storia dell’isola: sono i passaggi dal “Neolitico” all’Eneolitico e da questo all’Età del bronzo, in cui inizia la civiltà nuragica. Ritengo che alcune osservazioni che ho fatto recentemente possano portare un contributo per migliorare le conoscenze finora acquisite.

2 – OSSERVAZIONI

Una prima serie di osservazioni riguarda le tecniche usate nella costruzione dei nuraghi. Pallottino (1950) distingueva due tipi di tecniche: la prima con pietre irregolari e la seconda con pietre squadrate, portando come esempio del secondo tipo il nuraghe Losa; riteneva tuttavia “oltremodo incerto un rapporto tra questi diversi tipi di struttura ed una progressione di raffinamento tecnico legata a differenza di tempo”.

Ritengo che si possano distinguere non due ma tre stili costruttivi, tutti senza uso di un legante. Il primo stile è presente nei protonuraghi, o nuraghi a corridoio, ma anche nei nuraghi immediatamente successivi. I blocchi usati sono allo stato grezzo. Una conseguenza è che necessariamente tra i blocchi restano spazi vuoti, che vengono riempiti con pietre di piccole dimensioni. Lo vediamo nelle Fig. 1÷3 (nuraghi Majori di Tempio Pausania, Albucciu di Arzachena e un torrione del nuraghe Arrubiu di Orroli).

Con il secondo stile i blocchi sono lavorati a percussione per ottenere forme adatte a creare filari regolari, in cui la posizione delle pietre è sfalsata passando da un filare al successivo, come in un nido d’ape. Nelle Fig. 4÷7 sono rappresentati i nuraghi Santa Barbara di Macomer, Losa di Abbasanta, S. Sarbana di Silanus e Toscono di Borore.

Con il terzo stile le pietre sono ancora lavorate a percussione, e le loro forme si approssimano grossolanamente a parallelepipedi rettangoli; pertanto le facce a vista sono quasi dei rettangoli. Ne abbiamo esempi nei nuraghi di Palmavera ad Alghero, Is paras a Isili, Millanu a Nuragus e Sisini a Senorbì nelle Fig. 8÷11.

I primi due stili possono essere associati, come si vede ad esempio nel nuraghe Losa (fig. 5). Alla base sono posti blocchi di grandi dimensioni, non lavorati; sopra di essi blocchi di minori dimensioni sono stati ridotti a forme più idonee a disporre gli elementi in modo ordinato. Lo stato grezzo delle pietre inferiori suggerisce che vi fosse una difficoltà a sagomarle, e che i costruttori non disponessero di un sistema per misurare angoli e spigoli, necessario per poter ridurre facilmente i blocchi a forme volute.

Un elemento frequente nell’architettura nuragica è l’architrave. I piedritti possono essere verticali o, più spesso, inclinati. L’inclinazione era attuata per diminuire la lunghezza dell’architrave e il rischio di una sua rottura; talvolta questo effetto è ottenuto inserendo una finestrella di scarico al disopra. La riduzione della luce immediatamente sotto l’architrave può essere totale, quindi con lunghezza minima di questo oppure con la sua scomparsa. Nella Fig. 13 è visibile un passaggio nel nuraghe di S. Antine di Torralba, in cui vi è quest’ultima situazione: le due pareti si toccano in sommità, mentre non compare mai un blocco incuneato tra di essi a formare una chiave di volta.

Una seconda serie di osservazioni è stata fatta sulle domus de janas, che, comparse nel periodo della Cultura di San Ciriaco, hanno avuto grande espansione nel successivo periodo della Cultura di Ozieri, durante la parte finale del Neolitico. Esse hanno la particolarità di essere state scavate in tutti i tipi di roccia, dalle più tenere, come tufi vulcanici, alle più resistenti, come calcari, trachiti, basalti e graniti. Queste ultime rocce non possono essere scavate con strumenti di selce; se in tempi primitivi ciò fosse potuto accadere, troveremmo grotte artificiali in abbondanza, scavate per ricavarne ricoveri sicuri. Il loro scavo perciò deve essere avvenuto con strumenti di un materiale che fosse più rigido del rame. Ho già esposto le ragioni per poter parlare di una prima Età del bronzo, conseguente ad una invenzione di questa lega che ha preceduto di circa 7000 anni l’Età del bronzo a tutti nota (Mortari, 2015).

Altre osservazioni sono state fatte sulle cosiddette tombe di giganti, che Lilliu (in Pallottino, 1950) aveva distinto in due classi: una “a muratura di pietre poste per dritto” e l’altra “fatta in opera subquadrata … a file regolari di buon taglio”. Anche nelle presenti osservazioni sono state riconosciute due distinte modalità costruttive, ma con impostazione diversa. Le tombe costruite con la prima modalità sono caratterizzate da un corridoio a pareti verticali, chiuso superiormente da lastre di copertura, come alle tombe Li Moru e Coddu Vecchiu ad Arzachena (Fig. 14 e 15); perlopiù nella parte frontale vi è una stele nella quale è stata praticata un’apertura di ridotte dimensioni, atta al passaggio dei resti da conservare all’interno, come possiamo vedere ancora a Coddu Vecchiu (Fig. 16). A Li Mizzani di Palau la stele ha contorni più rozzi (Fig. 17).

Nell’ambito di questa modalità possiamo osservare anche una lavorazione più raffinata, come nelle due tombe del villaggio Iloi di Sedilo (Fig. 18÷22), che si può spiegare con il modo in cui le pietre sono state trattate: le superfici piane risultano dal taglio di una sega mentre le superfici con rotondità sono state elaborate, in modo molto curato, a percussione.

Nella seconda modalità il corridoio ha una sezione interna a forma di triangolo: esso si chiude in alto con l’aggetto crescente delle pietre, che si toccano in sommità, come avviene tipicamente nei corridoi e nelle nicchie dei nuraghi; la Fig. 23 si riferisce a Is Concias di Quartucciu. Nella stessa tomba l’apertura non è scavata ma ottenuta dall’impilamento di pietre a formare i due brevi piedritti, sormontati da un architrave (Fig. 24).

Una quarta serie di osservazioni riguarda i pozzi e le fonti. Per questi manufatti Lilliu distingueva due tecniche: una più antica e con murature più rozze e l’altra, più recente, con pietre ben lavorate a scalpello. Anch’io vi ho riconosciuto essenzialmente due modalità costruttive principali, ben distinte, di trattare le pietre: un modo più rifinito e uno più grossolano, ma con un ordine cronologico opposto, come verrà giustificato più avanti. Nella prima modalità le pietre sono state squadrate o a percussione o a taglio. Una sagomatura a percussione si riconosce al pozzo Coni di Nuragus (Fig. 25), al pozzo di S. Vittoria di Serri (Fig. 26 e 27) e nell’ambiente rituale di Sa Sedda ‘e sos Carros (Fig, 28); nella fig. 27 si può riconoscere che la lavorazione è stata fatta con martello e punta. Pietre segate sono invece quelle di Su Tempiesu a Orune (Fig. 29), Predio Canopoli a Perfugas (Fig. 30) e S. Cristina di Paulilatino (Fig. 31 e 32). Nei dettagli della fig. 32 (specialmente se la confrontiamo con la fig. 27) e della Fig. 33 si possono osservare meglio gli spigoli, molto netti, come si possono ottenere solo segando le pietre e non colpendole con uno scalpello o una punta. Inoltre, a Predio Canopoli le facce delle pietre, costituite da una marna a grana fina, sono generalmente molto lisce, con l’esclusione dei gradini, che sono stati volutamente intaccati qua e là con scopo antisdrucciolo.

Nella seconda modalità le pietre sono state poco e niente elaborate, come nei pozzi di Matzanni di Vallermosa (Fig. 34 e 35), Sa Testa di Olbia (Fig. 36), Milis di Golfo Aranci (Fig. 37), Is Pirois di Villaputzu (Fig. 38) e anche S. Anastasia di Sardara (Fig. 39), mentre nel caso di Su Lumarzu di Bodreccu (Fig. 40 e 41) si raggiunge una lavorazione ragguardevole, ma mai all’altezza di quelle della prima modalità descritta.

A Su Tempiesu sono state misurate (iniziando dalla parte più esterna, cioè a destra) le altezze alle due estremità, destra e sinistra, di ciascuna delle pietre del 5° filare che nella Fig. 42 è per metà all’ombra. I valori, in cm, sono stati 20,2-20,2 / 20,3-20,6 / 20,6-20,5 / 20,5-20,3 / 20,4-20,3 / 20,2-20,2. Il valore della media, è di 20,358 cm. Commenterò questo valore più avanti.

A Santa Cristina ho misurato l’altezza delle pietre dei primi 17 gradini dove era possibile infilare un listello al disotto del gradino per precisare la posizione della faccia inferiore, dato che ogni gradino poggia su quello inferiore (Fig. 43) e che le facce superiori dei suoi vari elementi (di altezza leggermente diversa tra loro) sono state disposte necessariamente allo stesso livello, lasciando così, spesso, sotto le pietre di altezza minore, un sottile spazio tra i due gradini, riempito di terra. Per ogni gradino le misure sono state da un minimo di 2 a un massimo di 7, iniziando dalla parte che si trova a destra scendendo. I dati, in cm, sono 1: 24,6-24,6-24,6; 2: 24,7-24,65-24.75-24,75-24,65-24,75-24,8; 3: 25,05-24,65-24,7; 4: 24,6-24,6-24,6; 5: 25,0-24,8-24,85-24,9-24,7; 6: 24,85-24,9-24,9-24,6; 7: 24,7-24,9-24,85-25,0-24,9; 8: 24,7-24,6-24,6; 9: 24,6-24,9; 10: 24,7-24,6-24,6; 11: 24,65-24,8-24,8; 12: 24,7-25,35-24,8; 13: 24,6-24,7-24,8; 14: 24,8-24,75; 15: 24,3-25,0; 16: 24,9-24,65-24,65-24,7; 17: 24,6-24,6-24,8.

3 – CONSIDERAZIONI

Nella storia della Sardegna che è stata ricostruita fino ad oggi, intorno al 3200-3300 o al 2700 aC a seconda che ci si basi su date radiocarbonio calibrate o no (vedi Moravetti in Brigaglia et al., 2006, e Melis, 2009) sarebbe avvenuto il passaggio tra culture neolitiche e culture dei metalli. Ma se consideriamo le architetture diffuse sul territorio in un confronto con ciò che si trova in altre aree del Mediterraneo, dobbiamo riconoscere che prima di quella data vi era nell’isola una cultura più avanzata tecnicamente. Essa doveva disporre già di utensili di bronzo, coi quali sono state scavate le domus de janas in rocce di ogni tipo, compresi basalto e granito, che non possono essere scavate con strumenti di selce. Tali utensili provenivano dall’esterno dei confini, dove il bronzo veniva considerato materiale strategico, e si è cercato per millenni di detenerlo in maniera esclusiva, senza che ne rimanessero evidenti resti materiali (Mortari, 2015).

La superiorità tecnica della popolazione considerata “neolitica” si manifesta osservando come sono stati costruiti gli edifici per il culto delle acque e per le sepolture. Pozzi e fonti sono stati rivestiti di pietre, alcune delle quali sono state squadrate per mezzo di una percussione, altre di un taglio. Il taglio, riconoscibile per le superfici più levigate e per gli spigoli più netti, avveniva con l’uso di una sega. In contrasto, nei nuraghi, che rappresentano le costruzioni più tipiche delle popolazioni che hanno importato in Sardegna l’uso dei metalli, troviamo una evoluzione nelle tecniche costruttive che non arrivano mai alla raffinatezza delle costruzioni precedenti, e soprattutto non vi si manifesta né l’impiego di seghe per il taglio delle pietre né una metrologia architettonica. In Sardegna si assiste dunque a due distinti e successivi processi evolutivi nel campo delle costruzioni in pietra, di cui quello di epoca nuragica, come ho esposto nella parte delle osservazioni, presenta risultati finali meno curati rispetto al precedente.

Figura 44

Un’evidenza dell’esistenza dei due diversi sviluppi è offerta dall’architettura delle tombe di giganti. Tali tombe derivano le loro forme dai dolmen come ad esempio quello di Sa Coveccada a Mores (Fig. 44), le cui forme tozze sono destinate ad allungarsi col tempo. La pietra frontale si è estesa poi verso l’alto, come si osserva per la tomba di Li Mizzani a Palau, dove è poco elaborata (fig. 17); essa ricorda ancora i lastroni frontali dei dolmen ed è affiancata da ortostati decrescenti in altezza man mano che ci si sposta lateralmente. In seguito la stele ha acquistato un contorno regolare ovale che troviamo frequentemente con una cornice.

A un certo momento sono state cercate soluzioni nuove, come testimoniato dalla stele di Su Cuaddu ‘e Nixias di Lunamatrona, nella quale troviamo che invece di un listello orizzontale ce ne sono due e che il bordo superiore dell’apertura è diventato per la maggior parte rettilineo. Inoltre nel settore centrale è presente un piccolo foro rotondo che dovrebbe avere un suo significato, contrapposto a quello del varco inferiore, almeno a giudicare dal fatto che esso è stato ricavato leggermente a destra, mentre al contrario il varco maggiore è stato spostato leggermente a sinistra. A Vidili Piras di Paulilatino sono state apportate ulteriori modifiche allo schema iniziale: il bordo superiore dell’apertura è completamente rettilineo e il contorno della stele non è più ovale ma ha la forma di un trapezio. Probabilmente si tratta dell’inizio di un processo in cui si cercano modi di diversificazione esecutiva importanti. In effetti l’esedra cambia molto la propria progettazione: tutto il lato superiore dell’apertura risulta rettilineo, come in una delle tombe a Iloi di Sedilo (fig. 19), e in seguito l’apertura stessa non viene più scavata in una stele ma è costruita componendo tre pietre squadrate, come a Osono di Triei. Poi le pietre squadrate vanno ad occupare tutta l’ampiezza dell’esedra e prendono il posto che era stato degli ortostati, come a Pradu su Chiai di Villagrande Strisaili o a Madau di Fonni. Sembra dunque essere comparso un elemento nuovo: la ricerca di allineamenti orizzontali, in contrasto con lo sviluppo che avevano avuto elementi verticali come menhir, betili e ortostati.

L’ultimo passo successivo è l’uso di una sega, che permette di regolarizzare le superfici e gli angoli, come a Iloi di Sedilo (fig. 18) e a Biristeddi di Dorgali. È da notare che in quest’ultimo caso il tipo di aggetto dei filari su quelli inferiori è simile a quello che si rileva a S. Cristina e a Predio Canopoli.

Lo schema delle tombe di giganti senza stele frontale è stato mantenuto in periodo nuragico, durante il quale si assiste ad una rinnovata evoluzione, in quanto sono state applicate alle strutture le stesse tecniche utilizzate nei nuraghi. Dapprima sono state impiegate pietre irregolari come a Barrancumannu e Quartucciu (1° stile nuragico), poi pietre abbondantemente corrette (2° stile) come a Mura Cuada di Paulilatino, poi pietre rozzamente squadrate (3° stile) come a Sa Domu ‘e s’Orcu di Siddi. La sezione interna del corridoio è dapprima triangolare, come a Is Concias (fig. 23) o a Punta ‘e su Crabile di Villanova Monteleone e infine trapezia, come a Siddi.

Figura 45Figura 46

Anche nei templi si vedono i tre stili nuragici. Come esempi, il primo si trova a Malchittu di Arzachena (Fig. 45), il secondo a Janna ‘e Pruna di Irgoli e il terzo a Serra Orrios di Dorgali e a Gremanu di Fonni.

Durante il primo processo che ho cercato di ricostruire per le tombe di giganti, queste hanno prestato alle domus de janas la decorazione intorno alle piccole porte di accesso, come si vede a Molofà di Sassari (Fig. 46) o a Campu Lontanu di Florinas, dove si riproducono in bassorilievo le forme delle steli centinate. Inoltre il tema della protome taurina che è alla base della forma complessiva delle tombe di giganti si ripete in piccolo sulle pareti di molte delle tombe scavate nella roccia.

Come per le tombe di giganti, anche per le fonti e i pozzi possiamo riconoscere due distinte fasi di sviluppo. In una prima evoluzione tecnica le pietre impiegate sono squadrate, dapprima sagomate a percussione, come a Coni o alla fonte di Puntanarcu di Sedilo, poi a taglio, come a su Tempiesu, Predio Canopoli o Santa Cristina di Paulilatino.

Nella seconda fase, nuragica, si va dall’uso di pietre grezze o poco lavorate fino a pietre abbastanza ben squadrate; ciò avviene ad esempio nella parte esposta di Su Lumarzu, mentre invece nella parete del pozzo di raccolta la squadratura lascia alquanto a desiderare (fig. 41).

Per quanto riguarda le misure, ho già anticipato che i nuragici non avevano sviluppato una metrologia: essi perciò non avevano un sistema per misurare la geometria delle pietre che utilizzavano per erigere i loro edifici, e la scarsa accuratezza con cui essi sagomavano le pietre di maggiori dimensioni lo rivela.

Invece vi era nell’area del Mediterraneo una popolazione di lingua (o di un gruppo di lingue) non indoeuropea (con una società a carattere matriarcale, in contrasto con quella patriarcale dei nuragici) che all’incirca 10000 anni fa aveva già adottato precise unità di misura per determinare sia le lunghezze degli spigoli che le ampiezze degli angoli delle pietre sagomate per erigere i cosiddetti muri poligonali, che troviamo diffusi non solo in diversi paesi intorno alle rive del Mediterraneo ma anche in Sudamerica e in Giappone. È grazie alla identità dell’unità di misura impiegata in queste diverse parti del mondo che sappiamo che si trattava di una popolazione di navigatori eccezionali. Essi hanno costruito una civiltà che è stata chiamata civiltà pelasgica (Mortari, 2015). L’unità di misura impiegata per determinare le lunghezze era di 1,536 cm (Mortari, 2012).

A Su Tempiesu, l’altezza media del filare misurato, di 20,358 cm, corrisponde a 13,25 unità pelasgiche (up).

Figura 47

Per S. Cristina ho reso in forma grafica i valori misurati, approssimandoli a 1 mm e non a 0,5 mm come avevo fatto durante le misurazioni; ho ottenuto l’istogramma di Fig. 47, in cui in ascisse sono i valori di altezza H rilevati e in ordinate la loro frequenza N. Vi si osserva che praticamente il valore di 24,6 cm, oltre che essere il valore più frequente, è praticamente anche il limite inferiore delle misure, e come tale lo considero il valore che si intendeva ottenere. Esso corrisponde a 16,02 up.

I due numeri ottenuti, praticamente coincidenti con valori interi, suggeriscono dunque una matrice pelasgica delle due opere esaminate.

4 – CONCLUSIONI

Vi sono evidenze che nel “Neolitico recente” della Sardegna venivano impiegati utensili di bronzo per costruire tombe di giganti, pozzi e fonti sacre e domus de janas, e si faceva uso di una metrologia architettonica. Verso la fine dello stesso periodo si è aggiunto l’uso di una sega per sagomare le pietre; in seguito questo strumento non è stato più usato a questo scopo dai nuragici. Le opere dei “neolitici” sono state il frutto di una popolazione a carattere matriarcale che era diffusa in tutto il Mediterraneo e anche fuori di esso e che dopo il passaggio tra il “Neolitico” e l’Età del rame ha dovuto abbandonare le conoscenze tecniche raggiunte allorché sono sopraggiunte le nuove popolazioni dominatrici, a carattere patriarcale.

LAVORI CITATI

Brigaglia M., Mastino A., Ortu G.G. (a cura di ) (2006) Storia della Sardegna – 1. Dalle origini al Settecento. Laterza.

Melis M.G. (2009) L’Eneolitico antico, medio ed evoluto in Sardegna. Atti XLIV r. s. Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. V. 1, p. 81-95.

Mortari R. (2012) 2012-Dalla profezia maya alle previsioni della scienza. www.terradegliuomini.com.

Mortari R. (2015) La civiltà pelasgica e sua espansione dal Vicino Oriente all’arcipelago giapponese. Geografia, a. XXXVIII, N. 1-2, p. 26-43. Roma.

Pallottino M. (a cura di G. Lilliu) (1950) La civiltà nuragica. Edizioni del Gremio.